«My name is Shaquille O'Neal and Paul Pierce is the truth», dice Shaq a fine partita. È il 13 marzo 2001. Il match? Los Angeles Lakers-Boston Celtics. I gialloviola si impongono 112-107, ma Pierce ne scrive 42 con 13/19 dal campo. O'Neal gli ha appena "appiccicato" addosso il nickname che lo accompagnerà per il resto della sua carriera. The Truth, la verità. Perché Paul Pierce ha una capacità. Quale? Farti capire chi sei. Come? Facendoti raccogliere la palla dal fondo della retina.
«There's only one Truth»
A mostrare l'onnipotenza della verità, secondo Peter Vecsey, ben prima di Paul Pierce, è stato solamente Walter Berry. Nell'America dei ballers, in particolare a New York, a valere più di tutto è la Rep (Reputation, ndr). Alla lettera: la considerazione che un intero quartiere, se non l'intera città, ha di te come giocatore. Reputazione che si conquista sui playground, prima ancora che sugli infuocati parquet liceali. Il Nostro, nato nel maggio del 1964 a New York, muove i suoi primi passi sull'asfalto di Harlem ed al Rucker Park. Vivere lì e sfuggire alla spirale di droga e criminalità, che ti catapulta dentro e senza vie di scampo, è difficile. Ed il talento cestistico non aiuta. Anzi, possedere tali doti con la palla a spicchi è, se possibile, ancor più deleterio. A tenere lontano dai guai teenagers problematici come Berry è una specie di santone, Stan Dinner. Il coach della Benjamin Franklin HS, East Harlem, mette insieme una squadra di mezzi disadattati provenienti dal ghetto, ma che - con la palla a spicchi - ci sanno fare parecchio: Kenny Hutchinson, Boo Singletary, The Truth, Lonnie Green e Richie The Animal Adams. A detta di molti, il team di high school più forte mai visto negli States.
I Fabolous Red Men di St. John's
Diplomatosi, non avendo i voti necessari per la Division I, trascorre un anno in uno junior college a San Jacinto, in Texas, per sistemarli. Così facendo, può trasferirsi alla St. John's University, la migliore per coloro che vogliono competere ai massimi livelli senza abbandonare la Grande Mela. Nel college di Jamaica, Queens, trova spazio in uno dei gruppi più talentosi, visti con la canotta dei Red Men: Chris Mullin, Marc Jackson, Bill Wennington, Shelton Jones e Ron Rowan. Guidati da Lou Carnesecca, vincono la Big East davanti alla Georgetown di Patrick Ewing, che si prenderà la rivincita alla Final Four Ncaa, eliminandoli in semifinale. L'anno seguente, con Mullin in Nba, è Berry a divenire il primo violino dello squadrone, ottenendo il premio di giocatore dell'anno grazie ai suoi 23.2 punti ed 11.1 rimbalzi ad allacciata. Con un anno d'anticipo, si rende eleggibile al Draft, venendo selezionato dai Portland Trail Blazers alla 14ª chiamata.
Bust of the Draft
Debutta in Nba il 31 ottobre 1986. A Portland, complici dei problemi d'ambientamento, gioca solo sette partite, per poi essere mandato a San Antonio in cambio di Kevin Duckworth. Negli Spurs viaggia a 17 di media. Ben presto, però, si mette a litigare con coach Brown e viene scambiato a New Jersey ed, infine, a Houston, dove viene cacciato per aver dato un pugno ad un allenatore, chiudendo ingloriosamente la sua carriera negli Stati Uniti.
«Walter Berry alè alè»
Su di lui si fionda Nicola De Piano. L'ingegnere dei canestri lo porta a Napoli, ricoprendolo d'oro. 250mila dollari a stagione, mai visto nulla di simile in precedenza. In una sera d'inverno di fine 1989 sbarca a Milano e viene portato subito a giocare. Dall'aereo al parquet. 15/25 da due, 34 punti e 17 rimbalzi contro la Philips. «Senza dubbio il più grande atleta mai arrivato a Napoli - spiega l'ingegnere a la Repubblica -. In settimana faceva finta di allenarsi. Era talmente forte che non aveva bisogno di sudare troppo. Dovevano marcarlo in tre». De Piano lo cede al Villalba e se lo riprende nel 1992. Torna il 6 gennaio. 250 spettatori contro Sassari il turno precedente, quasi 10mila con la Marr Rimini di Carlton Myers. E cosa non succede in quel match. Napoli è sul -2 a pochi secondi dalla fine. Berry va in uno contro cinque da posizione centrale, giro e contro-giro in palleggio, fallo e canestro. Sbaglia l'aggiuntivo. Vuole farci divertire ancora. Rimini sul +1 all'overtime. Palla a Myers, 30" alla fine. Carlton penetra, ma c'è Berry che - con la mano sinistra - gli sradica il pallone dalle mani. Parte in coast to coast ed, a fil di sirena, affonda la schiacciata della vittoria. «Walter Berry alè alè». Gente a terra che piange di gioia, il delirio.
I trionfi greci e la fuga da Cantù
Walter, poi, va via di nuovo. Approda in Grecia, dove vince due campionati con l'Olympiakos e Coppa di Grecia e Coppa Korać con il PAOK. In mezzo, una disavventura con la canotta di Cantù. L'ala non quaglia con gli italiani, che lo accusano di giocare solo per le statistiche (20.4 punti, conditi da 10.1 rimbalzi, ndr). Il rapporto con i compagni si deteriora definitivamente nella "bella" degli ottavi di finale playoff contro Siena di Gerald King. La sfida è sui binari dell'equilibrio. A spezzarlo è Berry. 0/4 dalla lunetta nel momento clou della contesa (viaggiava sul 64% ai liberi, ndr), scagliando mattonate sul ferro tra gli sguardi basiti dei suoi. Vincono i toscani. Negli spogliatoi vola di tutto. Tutti contro Walter, che "scappa" in silenzio e con disonore.
Business man
Agli albori del nuovo millennio arriva a Jesi. Ad attenderlo c'è coach Mazzon, che lo racconta così: «Un talento naturale, un mancino puro - ha dichiarato a Tutto Napoli -. Faceva tutto con la sinistra. Fintava di usare la mano destra, ma tornava sempre alla sinistra. Il bello è che gli avversari lo sapevano, ma nessuno riusciva a marcarlo». Ora Berry è un agente immobiliare e lavora tra New York ed Atlanta. Spesso, però, si toglie giacca e cravatta e va al playground. Prende palla sul lato destro, palleggia verso sinistra, virata, contro-virata, finta: canestro, come sempre.